Alcune considerazioni in tema di Costituzione e Codice Penale

26/05/2023 – Nicola Enrichens

Il Codice Penale italiano, noto anche come Codice Rocco, è del 1930.

E’ suddiviso in due parti; una parte generale, che comprende gli istituti giuridici fondamentali del diritto penale (quali, ad esempio, l’imputabilità, la colpevolezza, il nesso di causalità tra condotta ed evento…) ed una parte speciale, che comprende, sostanzialmente, i reati, debitamente distinti in delitti e contravvenzioni. Il Codice Penale entra in vigore, dunque, durante il ventennio, tuttavia alcuni studiosi hanno ritenuto che non si tratti di un Codice fascista e, forse, per tale ragione, è in vigore ancora ai giorni nostri.

Certamente, l’impronta del Codice Penale italiano è antitetica rispetto a quanto contenuto nella Costituzione del 1948. Brevemente, si può parlare di “progressione ascendente” per ciò che riguarda la Costituzione, in quanto i diritti della persona sono considerati prioritariamente rispetto alla disciplina del funzionamento e degli organi dello Stato, mentre si può parlare di “progressione discendente” per quanto riguarda il Codice Penale, nel senso che, data la distinzione tra delitti e contravvenzioni, le prime norme della parte speciale considerano i reati nei confronti dello Stato e, solo alla fine, si declinano i reati contro la persona.

Questa distinzione, in parte, evidenzia la differenza temporale in cui sono entrati in vigore i due testi di legge. Inoltre, la Carta Costituzionale rimane un testo di legge “generale” e, per così dire, garante delle libertà e anche dei doveri di ciascun cittadino (ad esempio si specifica che i dipendenti pubblici sono al servizio della nazione); il Codice penale, al pari di quello civile, è invece una legge più applicativa, in quanto funge da strumento di lavoro imprescindibile per coloro che operano nei suddetti rami del diritto.

Ciò che però si intende segnalare in questo contributo è il fatto che, rispetto ad altri paesi occidentali, la Costituzione italiana è sostanzialmente un “testo di legge giovane” (in Inghilterra, ad esempio, la Magna Charta è del 1215) e, per tale motivo, sebbene essa abbia incominciato a dare i propri frutti applicativi per tutta la seconda metà del novecento, risulta difficilmente comprensibile la volontà che, da più parti, ne spinge per modifica, in quanto il sistema democratico, in Italia, ha ancora bisogno di maturare. D’altra parte, l’idea di un presidenzialismo di fatto, potrebbe riportare allo stato di natura i consociati e, quindi, le persone, in quanto, come già affermava J. Locke nei “Due trattati sul governo” del 1689, il potere assoluto è incompatibile con la società, e quindi non può per nulla essere una forma di governo civile.

Infatti, poiché il fine della società civile consiste nell’evitare e rimediare a quegli inconvenienti dello stato di natura, che necessariamente conseguono al fatto che ciascuno è giudice nella propria causa, con l’istituzione di un’autorità riconosciuta, alla quale ciascun membro di quella società possa appellarsi per ogni offesa ricevuta o ogni controversia che possa sorgere, e a ciascun membro della società, debba obbedire, “ovunquesi” trovino persone che non hanno tale autorità a cui appellarsi per la decisione di divergenze sorte fra di loro, queste persone sono ancora allo stato di natura, e in questo stato si trova ogni principe assoluto rispetto a quelli che sottostanno al suo “potere”. Naturalmente, a quel tempo, la tripartizione del potere tra legislativo, esecutivo e giudiziario non era ancora stata attuata; tuttavia le considerazioni sovra riportate possono essere tenute a mente anche per questi giorni.

Nicola Enrichens