Lo chiamano lavoro, ma è sfruttamento

1/03/2023 – collettiva.it

I ragazzi vogliono darsi da fare, chiedono dignità e diritti, ma non li trovano. Il racconto di Clara, partita dal Sud con entusiasmo e oggi piena di amarezza

“I giovani avrebbero bisogno di essere accompagnati nel mondo del lavoro, aiutati a costruirsi un futuro e invece troviamo solo chi si approfitta di noi e quando chiediamo ciò che ci spetta ci mandano via”. Sono parole di Clara (il nome è di fantasia ma la storia – purtroppo – è verissima e non unica), una ragazza minuta ma “tosta”. Clara ha 24 anni, quando è arrivata a Roma dal paesino del Sud dove è nata – e dove ha lasciato famiglia e affetti – di anni ne aveva 19, era il 2017. Ha capelli scuri come la terra arsa dal sole, occhi chiari e luminosi come il mare illuminato e un sorriso aperto e fiducioso. Ma quando racconta la sua storia si incupisce e scuri diventano anche i suoi occhi.

L’arrivo nella Capitale

Sei anni fa sale su un aereo piena di sogni e con una passione: la cucina. I nonni gestivano un ristorante e il racconto dei piatti preparati dalla nonna e dei dolci inventati dal nonno “mentre ascoltava le canzoni alla radio” trasmettono odori e sapori. Forte di questo bagaglio e di una grandissima volontà trova subito lavoro. Chiamarlo lavoro, però, non è corretto. Clara viene impiegata come cameriera con un “contratto di prova per un mese” in un ristorante-pizzeria. La domanda che diventa inevitabile porsi è che razza di contratto fosse e da quali organizzazioni sindacali sarà mai stato sottoscritto, visto che prevedeva una retribuzione di 25 euro a servizio (per servizio si intende un turno, quello del pranzo o della cena) effettivamente lavorato. Il che significa che il turno settimanale di riposo non veniva retribuito. E non finisce qui. Secondo questo fantomatico contratto Clara avrebbe dovuto lavorare dalle 11 alle 16, ma in realtà cominciava alle 9 del mattino e “staccava” alle 17. Il tutto sempre per 25 euro.

La prova che si trasforma in nero

Il mese di prova finisce e nulla accade. Quello strano contratto non viene formalmente rinnovato e trasformato in assunzione e Clara continua a lavorare alle stesse condizioni, ma a quel punto totalmente in nero. Spesso costretta a due servizi giornalieri, lavorando così dalle 9 del mattino fino a conclusione della fascia serale. “Però se facevo il doppio turno, la mattina dopo stavo a casa”, racconta. Passa un mese, poi un altro e un altro ancora, ma del contratto promesso nemmeno l’ombra. “Mi sentivo presa in giro, avevo la speranza che mi assumessero e invece non succedeva mai”. Allora Clara si guarda intorno e di “lavoro” ne trova un altro. “Pensa – mi dice – mi hanno fatto subito il contratto”.

Contratto o inganno?

Stavolta si tratta di un locale di ristorazione veloce, con un orario settimanale che consente a Clara di integrare il salario facendo qualche turno in un altro ristorante. “Avevo un contratto a 30 ore settimanali, a tempo determinato, con pagamento a voucher”. “Ma tu il contratto lo hai visto? A quale contratto collettivo faceva riferimento?”, le chiedo. La risposta lascia interdetti: “Mi hanno detto che era un contratto di apprendistato a tempo determinato per 6 mesi, con pagamento a voucher, circa 700 euro al mese per 30 ore settimanali”. E così il “contratto” è terminato e con esso anche il lavoro.

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