Coronavirus, Osterholm: “La prossima epidemia sarà peggiore. Dobbiamo prepararci”.

DI ELISA MANACORDA – LA REPUBBLICA del 27/11/2020

Intervista a uno dei maggiori epidemiologi mondiali, appena nominato membro della Covid-19 Advisory Board dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden.

QUALCUNO, un giorno, ebbe l’intuizione di soprannominarlo “Bad News Mike” perché spesso – ricorda ora l’epidemiologo americano Michael T. Osterholm, direttore del Center for Infectious Disease Research and Policy (CIDRAP) all’Università del Minnesota, e appena nominato membro del COVID-19 Advisory Board dal nuovo presidente Joe Biden – i funzionari della pubblica amministrazione e i leader d’impresa non avevano nessuna voglia di sentirsi dire quello che invece avevo da dirgli”. Osterholm insomma sembra specializzato in cattive notizie. E anche in questo caso non si smentisce: “Un’altra pandemia ci sarà, e poi un’altra ancora, e dopo quella un’altra, e via di questo passo”, scrive nella prefazione all’edizione italiana del suo libro appena pubblicato da Aboca (Il peggior nemico. Come vincere la battaglia contro malattie infettive ed epidemie), scritto a quattro mani con Mark Olshaker.

A un certo punto, continua Bad News Mike, esploderà una pandemia di portata addirittura superiore e diverse volte più grave della Covid-19. Molto probabilmente si tratterà di un nuovo virus influenzale con lo stesso potenziale devastante dell’epidemia di spagnola del 1918-1919, che uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone, ma stavolta accadrà su un pianeta dove nel frattempo la popolazione è triplicata ed è caratterizzato ormai da intensi traffici aerei, dalle megalopoli-polveriera del Terzo Mondo, dagli habitat naturali violati che ci hanno portato sulla soglia di casa interi serbatoi animali di malattia, dalla convivenza stretta tra milioni di esseri umani e animali ospite, e infine da una catena distributiva globale just-in-time, che va dai prodotti elettronici ai ricambi meccanici ai medicinali salvavita senza i quali gli ospedali più avanzati smettono di funzionare”.

Dunque, professor Osterholm, rispetto alla pandemia abbiamo solo cattive notizie?
“Abbiamo notizie buone e notizie cattive. La buona notizia è che il lavoro sui vaccini sta procedendo molto rapidamente, molto più di quanto immaginassimo. Ora dobbiamo aspettare l’iter di approvazione, dobbiamo lavorare sui processi produttivi e di distribuzione e poi potremo somministrarlo alle persone, e sono certo che questo avrà un grande impatto sull’epidemia. La cattiva notizia è che ci vorrà ancora qualche mese perché arrivi alla popolazione degli USA e nelle altre regioni del mondo. Non penso che vedremo vaccini prima del secondo o terzo trimestre del 2021. Questo è il periodo peggiore per la sanità pubblica dai tempi della pandemia di Spagnola, e questo è fonte di grandissima preoccupazione. Negli Stati Uniti i casi stanno aumentando molto rapidamente, lo stesso sta accadendo in Europa, anche se almeno da voi sembra esserci un maggiore controllo, ma la situazione è comunque molto pericolosa”.

Quando ci sarà il vaccino, che tipo di distribuzione adotterete? Non pensa che possano esserci rischi di disuguaglianze?
“L’amministrazione è stata molto chiara su questo punto: i vaccini saranno gratuiti e distribuiti a tutti i cittadini degli Stati Uniti, e il prima possibile. Penso che sia un approccio lodevole”.

E chi avrà la precedenza nella somministrazione? Gli anziani, le persone fragili, gli operatori sanitari?
“Lo dobbiamo ancora decidere. Stiamo lavorando con il transition team e al momento non posso dire niente della strategia che adotteremo. A indicare le priorità sarà comunque la National Academy of Medicine (l’ente indipendente che fornisce consulenze su questioni di salute, farmaci e politiche sanitarie, ndr). Poi la palla passerà all’Advisory Committee on Immunization Practices, che è parte dei Centers for Disease Control, quando avremo l’approvazione finale da parte della Food and Drug Administration e potremo sapere cosa sarà approvato e per chi. Alla fine di questo iter ci saranno delle raccomandazioni sulle priorità delle vaccinazioni che verranno poi adottate a livello locale dai governi dei singoli Stati”.

In Italia si discute sull’accesso ai dati relativi all’epidemia, dati che spesso non sono omogenei, arrivano da fonti diverse, a volte non paiono attendibili. Qual è la situazione negli Stati Uniti?
“Abbiamo tutti lo stesso problema. Il fatto è che stiamo raccogliendo dati in modo velocissimo, e relativamente a un tema che fino a un anno fa non esisteva proprio. Oggi ci troviamo a gestire dati relativi a centinaia di migliaia di casi ogni giorno. Quindi è certamente una sfida, ma secondo me finora abbiamo fatto un buon lavoro nel raccogliere i dati, cercare di analizzarli e renderli disponibili alla discussione per capire quali azioni di salute pubblica dobbiamo intraprendere. Ora il nostro impegno è quello di seguire il percorso di sviluppo dei vaccini, capire come e a chi verranno distribuiti, avere tutte le informazioni relative alle dosi o ai richiami necessari, insomma avere accesso a tutti questi dati. Certo, si può sempre fare di meglio, ma tutto sommato mi sembra che abbiamo fatto abbastanza bene”.

Lei ha più volte ribadito che ci sarà un’altra pandemia, e che la prossima sarà anche peggiore di questa. Ci faremo trovare preparati questa volta?
“Non posso dire con certezza che la prossima pandemia sarà più grave di questa, ma certamente prima o poi ne arriverà una peggiore. Se dovesse essere simile a quella del 1918, per esempio, colpirebbe persone tra i 18 e i 30 anni, e quindi sarebbe tutto molto diverso. Spero veramente che la prossima pandemia non ci colga alla sprovvista, ma abbiamo bisogno di un livello molto più elevato di preparedness: al prossimo virus dobbiamo sapere in anticipo che tipo di vaccini dobbiamo sviluppare e come produrne rapidamente di migliori. E lo stesso vale per quanto riguarda la supply chain: dovremo distribuire farmaci e dispositivi di protezione in modo assai più efficiente di quanto abbiamo fatto oggi. Questo vorrebbe dire che abbiamo imparato tanto da questa pandemia. Tutto quello che stiamo sperimentando oggi deve essere registrato per poterci essere utile in futuro. Quando tutto questo sarà finito dobbiamo essere certi di avere imparato la lezione, così da essere più preparati in futuro”.

Ma si potrebbe fare qualcosa per evitare la prossima pandemia?
“Come CIDRAP stiamo lavorando insieme a diverse centinaia di altre organizzazioni allo sviluppo di un vaccino per l’influenza. Un giorno avremo un vaccino antinfluenzale potenzialmente universale, e che quindi cambierà le carte in tavola: potrebbe prevenire i ceppi emergenti di influenza o, se il contagio si dovesse diffondere, potrebbe consentirci di vaccinare rapidamente l’intera umanità. In questo senso sono ottimista, per quanto riguarda l’influenza siamo sulla strada giusta. Per quanto riguarda l’attuale pandemia, questa non sarà certamente l’ultima che dovremo affrontare. Ma almeno stiamo imparando un sacco di cose sui coronavirus”.

Per combattere le pandemie bisogna avere una forte leadership”, scrive nel suo libro. Cosa è successo con l’amministrazione Trump?
“E’ successo che noi oggi non abbiamo un piano nazionale per le pandemie, e ne abbiamo un bisogno disperato. Abbiamo 55 governatori e innumerevoli sindaci delle grandi città che cercano di trovare da soli la soluzione per gestire la pandemia. Questa totale mancanza di coordinamento nelle azioni è stato il vero punto debole della gestione della pandemia. Insomma, ci manca un piano nazionale, e prima lo avremo meglio sarà”.

Secondo lei qual è il ruolo di una buona comunicazione nel contenimento della pandemia?
“L’opinione pubblica ha capito cosa che sta succedendo e perché questo virus è così preoccupante. Ora però bisogna anche far capire che gli ospedali sono al collasso, a causa del gran numero di infetti e di pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva. Alla gente dobbiamo spiegare cosa sta accadendo e cosa stiamo cercando di fare sul breve periodo, cioè ora, e a lungo termine, grazie al vaccino. Dobbiamo chiedere ai cittadini quale pensano che debba essere il loro ruolo in quanto cittadini di un dato paese, e cosa possano fare per dare una mano. Dobbiamo spiegare loro quali saranno le conseguenze se non controlliamo la pandemia, e cosa questo possa significare per la loro famiglia, i loro cari, i loro colleghi. Insomma dobbiamo essere chiari, spiegando qual è il problema, le sue cause, cosa stiamo facendo per contrastarlo e cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro – per esempio qui negli Stati Uniti le cose sono certamente destinate a peggiorare, prima di poter andare meglio. Ma oltre a raccontare chiaramente tutto questo, dobbiamo usare un approccio che io definisco “alla Roosevelt”, cioè spiegare al paese non solo le sfide che ci attendono, ma anche delineare una strategia per il futuro”.