Addio a Franco Marini, il sindacalista leader.

PAOLO FESTUCCIA – LA STAMPA del 09 Febbraio 2021

Cordoglio bipartisan per la morte di Marini. Franceschini: «Perdo un maestro, un padre, un amico» GIACOMO GALEAZZI.

E’ morto stanotte a Villa Mafalda dove era ricoverato per i postumi del Covid. E’ stato segretario della Cisl, ministro, e presidente del Senato.

Se ne è andato senza clamore, in silenzio. Nel gelo che solo una malattia infida come il Covid con le sue complicanze può riservarti. Aveva 87 anni Franco Marini e si era ammalato alla viglia di Natale. Sindacalista e politico, era tanto spigoloso e freddo di carattere quanto generoso e trasparente nei rapporti. Era nato in Abruzzo tra l’Aquila e la piana di Navelli, dove la stretta di mano è più autentica di un contratto scritto. Suo Padre operaio specializzato alla Snia Viscosa si era trasferito a Rieti dopo la morte della moglie, una madre che l’ex presidente del Senato perde molto presto, a soli dieci anni, “lasciandomi un vuoto – raccontava – così grande che mi sono sempre portato dietro”.

Quella dell’ex segretario del Partito Popolare è una vita vissuta tutta in prima persona: densa di battaglie, aneddoti, emozioni, prima come ufficiale di complemento degli alpini, “nella caserma Bressanone,  la stessa che aveva ospitato Walter Bonatti” sottolineava, poi come segretario generale della Cisl e infine come leader di partito, e presidente del Senato nel 2006. Incontri, comizi, le nottate per i collegi, gli scontri con gli alleati e gli avversari, le trattative infinite tra parti sociali e governo. Tutte tessere di un mosaico cominciato al liceo classico “Varrone” di Rieti, la città che lo aveva adottato e dove aveva conosciuto la moglie Luisa D’Orazi al su fianco per quasi mezzo secolo.

Marini era un politico puro, tutta passione, con alleati fidati e avversari riconosciuti. Si racconta che non si alzasse dal tavolo senza una decisione risolutiva, a suo modo definitiva anche nelle rotture. Severo e spigoloso, non era uomo da cerimonie e anche per queste sue caratteristiche caratteriali, si era beccato il nomignolo di lupo marsicano. Ultimamente parlava poco di politica e molto più di vita. Parlava del nonno Franco, delle sfide alla corsa campestre, ma anche di quella sua insegnante ebrea che dopo la licenza media convinse suo padre a iscriverlo al liceo (e non all’istituto tecnico). “Cambiò il mio orizzonte di vita” raccontava, al punto che “appena nominato ministro del Lavoro nel governo Andreotti andai a ricercarla, ma purtroppo era scomparsa da poco”. Poi, ricordava le grandi battaglie sindacali,  Donat Cattin e Luigi Pastore, gli scontri con Romano Prodi, le battaglie nella Margherita, e quella volta che Francesco Cossiga mi disse, “Faccio senatore a vita Giulio Andreotti, così ti libero il collegio…” e ancora il sindacato, la grande famiglia in cui per tanti anni aveva vissuto e “che ancora non riesce a trovare la forza per reinventarsi di fronte alle sfide che la globalizzazione impone”. Argomenti ricorrenti durante le camminate in montagna. Franco Marini della montagna conosceva tutto, tempi e segreti. Sapeva riconoscere l’arrivo della pioggia, della bufera: “è come per la politica, se capisci i tempi della bufera sai come riparati”. A meno che “decidi di isolarti….” Alla mia età, diceva, “non si può ricominciare…Ho provato a fare il primo (e lo indicava con il pollice), mi sono fermato al secondo”.

Il primo stava per Quirinale, il secondo per la presidenza del Senato che arrivò nel 2006 dopo una serie di scrutini proprio “contro” Giulio Andreotti votato dal centrodestra. Poi, dopo il voto del 2013 e con una maggioranza da inventare, la scommessa per il Colle: sette anni dopo la presidenza di Palazzo Madama. Amarezza in quei giorni ma nessun rimpianto: “Nessuno come me aveva ottenuto con 521 sì la maggioranza dei voti al primo scrutinio”. Insomma, bastava che il quorum scendesse… Invece, niente… “E’ andata diversamente…Mah, acqua passata” rispondeva a chi gli chiedeva. Per l’ex segretario della Cisl, infatti, ogni “fatto si apriva e si chiudeva, qualunque fosse il risultato”. E così è stato anche per il Quirinale. Certo è, che in quelle giornate ha conosciuto bene gli alleati e anche gli avversari, ma soprattutto ha capito chi fossero i traditori, tra i tanti che durante lo scrutinio lo chiamavano e lo andavano a trovare nel suo studio. “Li ho registrati tutti, uno per uno, – diceva – ma in politica ci sta…ognuno gioca la sua partita, di strada comunque ne abbiamo fatta…”. Eccome se ne aveva fatta: da San Pio le Camere in Abruzzo fino a Palazzo Madama. Senza salotti e prime serate: da presidente del Senato non aveva mai dormito una notte nell’alloggio di servizio e quando dopo la fine del suo mandato i commessi di Palazzo Madama gli chiesero di poter appendere il suo ritratto nella sala dei presidenti rispose secco, “mai e poi mai fin quando utilizzerò gli uffici”. Con il risultato che anche chi arrivò dopo di lui fu costretto ad adeguarsi.

Ora Franco Marini è uscito definitivamente di scena. Restano i suoi discorsi, le sue iniziative politiche, le battaglie sindacali, ma soprattutto i suoi ricordi come quando chiese udienza a Giovanni Paolo II perché intercedesse sul Cile di Pinochet per far liberare dal carcere il sindacalista Manuel Bustos. “Il Papa ci ricevette, ricordo che prese un piccolo biglietto e con una piccolissima matita appuntò solo qualcosa…Poi, silenzio, e chiese a me e a Giorgio Benvenuto come era la situazione del sindacato in Italia. Uscimmo – ricordava Marini – quasi disorientati…A Benvenuto dissi che il Papa sa quel che fa, e Bustos qualche giorno dopo fu liberato…”. Certo, altri tempi ma quelle erano le battaglie in cui credeva Marini, quelle nella quali silenziosamente poteva dimostrare la sua grande generosità. Una generosità grande ma che proteggeva morbosamente e che gli dava grande sollievo e speranza. In fondo, in fondo ripeteva, “spero e penso” che “quando sarò davanti al Padre Eterno, lui chiuderà un occhio…”. Buon viaggio Franco Marini.